“Attimi al di là del tempo e dello spazio”


Biografia:

Monia Minnucci nasce a Sora il 5 maggio 1973.
Attualmente, vive e crea i suoi scritti a Frosinone.
La sua è un'anima tendenzialmente artistica, tanto che, in età molto giovane, compirà la scelta di studi artistici, atti ad una formazione propriamente poetica.
La sua arte è strettamente correlata alla letteratura, ma ancor più alla psicologia. 
Monia si auto-indaga, mentre traduce in opere letterarie la sua esistenza, spesso travagliata, con una 
capacità analitica che fuoriesce come un fiume in piena.
La si potrebbe definire una grande traduttrice dei sentimenti umani: li plasma, li studia, li condanna ma, spesso, con velata indulgenza, li assolve.
Presente in numerose antologie poetiche, si classifica prima in diversi concorsi letterari, fra i quali:
Premio Nazionale Virella Apicella Granese, con la poesia “Il libro degli spersi”
2° premio di poesia “Paola Albanese” con la poesia “Figlia” su: Il mio giornale.
Prima classificata con  il racconto: “Il bastardo” nel concorso Letterario “I racconti dell’agenzia del perdono”, indetto dalla  Casa editrice Livello4

 

Commento critico:

Ormai passeggiare lungo le rive dell'Isis è diventato una piacevole abitudine; soprattutto in questi giorni in cui, specie dalle parti dei Wolvercote, è allagato. Interi campi si sono trasformati in  distese d'acqua; qua e là affiorano cespugli d'erba, qualche radice spezzata d'albero trasportata dalla corrente; qui pascolavano tranquillamente cavalli, mucche e greggi di pecore curiose. Sosto su una panchina completamente inondata, l'acqua del fiume mi arriva quasi alle ginocchia. Non passa nessuno... la campagna che si distende a perdita d'occhio è deserta. Stranamente deserta, per solito il footpath lungo il Tamigi è sempre affollato di ciclisti e walkers. Oggi no, oggi non c'è nessuno, dalle tane non spuntano neppure talpe e conigli selvatici.
            Penso alle poesie della Minnucci. È un lampo improvviso. Dietro alla dolenza fredda e vibrante dei suoi versi, traspare l'ombra ferita di Giuseppe Ungaretti (E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto) e si affaccia, con una morbidezza lirica inconsueta, il faccione di Oscar Wilde che ho sempre amato e amo come pochi altri: le parole del suo folgorante, aereo, ricordo (Tread lightly,/ she is near/ Under the snow,/ Speak gently, she can hear/ The daisies grow.); splendido come il volo di una farfalla, delicato come i pensieri di un cuore lacerato.
            Nei versi della Minnucci c'è la stessa intensità lirica del tempo e dello spazio: La Casa degli Angeli, Piccolo Mondo, Infinita Notte, percorrono i meandri più profondi e dolenti dell'essere, ma li percorrono osservandoli con pietà e distacco. Il tempo si sovrappone al tempo, lo spazio allo spazio: ovunque si trova lo stesso sgomento, una insoluta risposta al perché delle cose della vita: (Ti tenevo la mano,/ ma tu eri la folata sulla soglia di casa); un guizzo nel tempo, il lampo che delimita il prima dal dopo; ciò che era e non è più; ciò che eravamo da ciò che non saremo mai più.
            La sua silloge rinchiude la compiutezza olistica dell'ispirazione con un non comune percepire poetico: il verso si trasforma nelle sonorità dell'esperienza aprendosi con immagini di memoria e di sogno come se una mano invisibile trasportasse verso approdi o cieli lontani. La forma si sostanzia in un inafferrabile attimo di fuga (Come le stelle,/ sempre e per sempre,/lontano da questo mondo in panne.) che resta, comunque, ancorato sui sentieri del proprio cammino (Ho amato ogni giorno autunnale,/le abitudini smesse,/ il corpo smagrito,/ la vitalità dei miei sorrisi era appesa al tuo volo sbiadito). Le ombre che proiettano i cieli stentano a dissolversi, si placano solo nell'armonia del verso con un senso di pietosa consolazione.

(Commento di Pier Luigi Coda)

Quando la poesia è liquido... di contrasto.

Il richiamo è maledettamente suadente.
Sono lì, postati nero su rosa…carne. Mi guardano senza possibilità alcuna che io possa avere di sottrarmene e allora non mi resta che ricambiare lo sguardo. Sono così sicura di quanto facciano male ( stemmo assieme come bambini/ credendo che il blu,/ che giocò a ingoiarci,/ fosse mare e non l’infinita notte/ che ci prese), loro stessi contusi, che decido di leggere ricorrendo a un escamotage, quasi serrando gli occhi e chinando la testa per difendermene.
I versi di Monia si aprono varchi negli occhi-fessura. Accuso la botta. Io “ contusa”, tu “contuso”. Evitarla è impossibile. Si può forse aggirare la verità?
Non si può restare indifferenti innanzi alla trama lirica di Monia. I versi appostati appena un poco dietro l’anima penetrano come liquido di contrasto sfruttando il principio della capillarità: le parole-molecole spingono, spingono e poi ancora spingono, poeticamente impoetiche, focalizzate su un io privato e antieroico. Ecco: il filo della vita è intriso. Totalmente zuppo di riso e lacrime tra i rintocchi multipli del riso e del pianto.
Monia è attenta alle sfumature variegate dell’animo umano e impasta un registro stilistico che ha il colore blu del mare e la dannata leggerezza del peso dell’esistenza. Ecco allora, verso dopo verso, compiersi l’universalizzazione dei contenuti per cui se da un lato la Minnucci si abbandona tanto scopertamente al tratto autobiografico, dall’altro ammanta di “noi” le proprie isole tematiche che restano incise nella memoria del lettore.
L’«io» diventa «tu» e sigla una silloge che  esonda dal bordo dell’animo proprio alla maniera dei grandi fiumi in piena; pare davvero venirmi incontro lo schianto ungarettiano: con uguale lentezza dello strazio/ Farsi lontana vidi la tua luce/ Per un non breve nostro separarci.
La Minnucci percorre il Nudo del cuore con la stessa graffiante intensità: Non do tempo/ all’insulto dei mari,/ solo opachi/ a metà menzogneri./ Non ho età/per scalfire le ali/ giudicando i venti/ per voli contrari raggiungendo vertici di un lirismo senza enfasi, ma, proprio per questo, fortemente agguantato al Vero e al Bello in ciò adempiendo pienamente al “mestiere” di poeta.
(Commento di Cristina Raddavero)



 

LA SILLOGE

 

Infinita notte

Nell’annuario dei sogni corrotti
hai inserito il mio nome,
fra riserve lontane
e brame di divenire.
Nella parentesi delle idee contuse
non stringermi la mano,
non glorificarmi
dalla postura imperfetta dei silenzi.
Stemmo assieme come bambini
credendo che il blu,
che giocò a ingoiarci,
fosse mare e non l’infinita notte
che ci prese.

Frecce di fuoco
Ho steccato
le mie frecce di fuoco,
acceso parole rubino,
bonificato pensieri malsani.
Fiore carnivoro d’umanità,
soluzioni grattate all’età
… gestazioni infinite.

Il volto sprovveduto del danno
serve l’anfora del risvolto
che giace intatta,
coppa colma,
perfetta e lucente meraviglia.
Al pensile astratto
del ricordo,
s’affaccia paonazzo
un vanto,
un rimpianto
 e palpita
 l’embrione dell’accordo,
fra i rintocchi multipli del riso e del pianto.


 Nudo del cuore

Non do tempo
all’insulto dei mari,
soli opachi
a metà menzogneri.
Non ho età
per scalfire le ali
giudicando i venti
per voli contrari.

Calibrare i rintocchi del tempo
nell’inganno versare l’età.
 Vanto i sapori del mondo,
calzo nebbie lunari,
ho venti stretti alle mani
e domino
terre di sotto,
con ali reali.
 Ho visioni
guardando i fondali
ove agiscono forze inumane,
i ciechi sanno indicare
le zolle contuse del mondo.
 Non do tempo
al giorno che offrite.
 Ardo lumi
sul nudo del cuore.


Figlia

Lungamente attesi
nell’istantanea d’un particolare,
che pietra aspra
ha più brio del mio fare.
Memorie sfrattate,
soppresse dalla vanità d’esistere
ottundono il gusto,
inficiano il tatto.
 Schegge di morto
dalla feritoia dello stacco.
 Anima spezzata,
attesa senza ritorno.
Sono due in una.
Sono mille in una.
Sono i volti della luna,
ma non effondo amorevoli luci ispirate
né regno fiera del mio pallore.

Lei sorride eternamente,
io annichilisco!,
ardo nel tuono...  nel lampo,
sferzata dal grande urlo,
tormenta autunnale
dal giallo lamento.
Foglia strappata,
figlia mancata,
sangue stracciato.
 La colpa dimora
nel voto reciso del ramo.


Il tuo nome

Sono lampi negli occhi,
calci degli angeli,
lo sfrigolio dei pensieri
dentro queste lettere strampalate,
con la schiena rotta
e un sostegno che non è giunto all’indice.
Sono corteccia ruvida,
la somma illesa
delle morti del poeta,
la stima del riso e del pianto
da una prospettiva d’ombra e d’amianto
ove il mondo in fuga,
non ha molto senso.
Sono il commiato da te,
non dalle tue parole,
fissate al bavero dell’eterno
come sta,  alla tomba, il tuo nome.

Preghiera

Il giorno è morto
con il sole buio dei tuoi occhi,
ingoiati dalla melma delle mie mani.
 Il ricordo è divenuto cenere e le lucciole dei sogni mi scansano,
danzando sulla linea d’orizzonte.
 Io sono ferma,
come di gelo,
le lacrime sciolgono l’abbraccio,
il sole spento è un chiodo rugginoso,
se lasci questa mano senza perdono.

 Il giorno si è smorzato,
il palpito ammutolisce,
le piume del silenzio riempiono lo spazio.
 Le ombre,
si allungano sul mio petto e zitta
è la strada nel mio orecchio,
pari alla tua bocca taciturna
                … 
silenziosa come  preghiera su una tomba.

 

Piccolo mondo

Stasera, l’ombra è leggera.
 Una nuvola spenta
galoppa la parete
e l’imbrunire non è scontato
nelle sue stelle in colonna,
ma la somma dei volti oltre la tenda.
Il destino dei ricordi incisi
nel buio di un profumo
e com’è piccolo il tuo mondo
negli occhi liquefatti del riflesso.
 Parole spese dall’emozione
traducono il tempo in attimi passati.
 Le pagine di ieri
hanno un alibi talmente estraneo
che cerco la traduzione,
i sottotitoli di un forte acquazzone.
 Stasera, l’ombra è un lume
Ne ho visti molti vacillare,
erano lampi e gradini sospesi nel blu,
oltre i come e i perché,
superiori a me e te.
 I fiori vagiscono
e le acque sbocciano
ove l’inferno asciuga. 

La casa degli angeli

 Come le stelle,
sempre e per sempre,
lontano da questo mondo in panne.
 Come il respiro del sonno che russa sfinito,
scendeva vermiglia la vita,
imbottigliata dai tubi delle tue sepolture.
 Erano colmi di verde i tuoi occhi infiniti di padre,
due scaglie di sole,
nel crepuscolo ornato della campagna.
 Come posso non chiamarti “Padre!”
 Inseguivo le tue orme nervose,
pungolate dal  suolo asettico dell’ospedale,
scrutavo, del sangue, la quantità e il colore che non tradisse.
 Ho amato ogni giorno autunnale,
le abitudini smesse,
il corpo smagrito,
la vitalità dei miei sorrisi era appesa al tuo volo sbiadito.
 Con le stelle è il trionfo della notte su tutte le certezze,
preghiere sussurrate innanzi al lume smorzato dei respiri,
nelle immagini del martirio colgo i tratti ultimi del tuo volto.
 Il soffio sordo e rauco si è piegato alla pace.
 Ti tenevo la mano,
ma tu eri la folata sulla soglia di casa
 ...
la casa degli angeli.

Torna a Homepage