Guglielmo Aprile: “Farsi amica la notte” - Giuliano Ladolfi editore

Se fosse stato così facile “farsi amica la notte”, Guglielmo Aprile non avrebbe sentito la necessità di darne il titolo stesso alla sua silloge; si viene attirati dalla notte e tirati per poi trovarsi non tanto innanzi alla questione essenziale dell’esigenza della verità, quanto piuttosto alla sua “antica” ansia raccogliendone i traumi e i crampi postumi.

Perché proprio durante la notte umana Il moribondo ripete a se stesso/di stare meglio, confuta/il verdetto che davanti ai suoi occhi/pronuncia il sole/sull’asfalto abbacinato.

La poetica di Aprile ammette la non verità come condizione della vita e ciò significa mettersi pericolosamente in contrasto con i consueti sentimenti di valori. Sentimenti, non valori e una poesia che osa questo si consegna, tout court al di là del bene e del male.

Solo che, allora e “per sempre” Aprile non semina, né coltiva il fiore più eccelso dell’Umanità e si accora e accorda sull’impianto biblico delle Lamentazioni per giungere al tragico greco per cui, in sintesi profonda, ogni creatura sulla terra, figlia di dèi, sa il proprio volere un po’ come Zeus nell’interpretazione che ne dà Holderlin nei suoi Scoli ad Antigone: la sua missione fu di trasformare l’ansia di lasciare questo mondo per l’altro, in un’ansia di lasciare l’altro mondo per questo.

In questo modo la parola di Aprile dice nell’angoscioso struggimento dell’infermo che pensa la salute, del vegliardo che rammemora i sogni giovanili, dell’amante che è strappato dall’amata, dal martire che assiste al tramonto del proprio ideale, dell’eroe la sera della battaglia che non ha deciso nulla perché nulla può e può decidere.

Cielo storpio assurge a manifesto di Aprile:

Non puoi modificare

percorsi e orari delle linee aeree;

rassegnati, Marte è una roccia gelida

inabitabile, l’orchestra suona

un solo pezzo, sempre quello, li guitto

ha un repertorio piuttosto ristretto.

 

Devi assuefarti

al rumore di lamiera tritata

dalle ganasce del compattatore-

o anche solo prendere sonno (non dico

vivere, ballare con i gabbiani)

diventa bilico, siringhe qua e là

sparse sotto la sabbia

e gola ingorda e vuota di vulcano.

L’uomo, dunque e il suo stato felice prende dimora nell’orizzonte che egli ha davanti e dietro di sé in egual misura. L’uomo così antico da essere il capostipite di tutti gli uomini nuovi. Questa è l’eredità che lascia intendere Aprile, l’uomo che si sobbarca sull’anima il più antico come il più nuovo e tutto stringere in ciò che non ha mai conosciuto.

Aprile mi ha ricordato un passaggio di Fernando Savater quando nel suo Filosofia contro Accademia, scrive, a proposito della felicità non esperita dall’uomo: la felicità di un dio colmo di potenza e d’amore, di lacrime e di riso, una felicità che, come il sole alla sera, non si stanca di effondere doni della sua ricchezza inestinguibile e li sparge in mare, e come il sole, soltanto allora si sente assolutamente ricca, quando anche il più povero pescatore rema contro un remo d’oro! Questo sentimento divino si chiamerebbe, allora, umanità!

Sgorga questo sentire dalla notte di Guglielmo Aprile:

E nient’altro vorrei, se non chiudere gli occhi

e ubriacarmi alla litania delle onde.

(Commento di Cristina Raddavero)