Cristina Raddavero : “Autra da chi” - Audax Editrice

 

“Val Borbera? Mai sentita nominare… e dove si trova?”
Allora devi spiegare che in Val Borbera ci si arriva da Genova o da Alessandria o da Pavia, oppure ancora da Piacenza. Poi devi costeggiare il torrente e scendere a valle, oppure devi inerpicarti  su per il monte Bossola o l’Ebro percorrendo stradine sconnesse tra boschi di roveri e di castagni, tra colori intensi d’aria limpida e nuvole calde, bellissime, gonfie di sole. Qui è il profumo del tempo, o meglio, l’immobile solennità del tempo che attraversa tutte le stagioni e si perde tra le casupole di piccole frazioni ormai quasi completamente abbandonate: le due Dove, Teo, Casalbusone, Cerendero, Cosola, Gordena, Daglio, …

Ed è qui, tra questi impasti di sudori e fatiche, dove la storia lascia molti rimpianti, che Cristina Raddavero abbraccia le memorie della sua terra con il suo ultimo racconto: “Autra da chi”. E dico subito che Piuzzo, il paese dove è ambientato, non poteva ricevere un abbraccio più forte e più tenero.
Per me non è facile parlare delle opere letterarie di Cristina Raddavero; la conosco da molti anni, è una delle più autorevoli collaboratrici di Dictamundi, abbiamo radici territoriali e linguistiche comuni; ho sempre la sensazione che il mio giudizio, per quello che potrebbe valere, lasci il dubbio che sia inficiato da una “salottiera” complicità, dalla solita strizzatina d’occhi che vanifica l’imparzialità e l’onestà di opinione.
Ma non è così, Cristina Raddavero ha scritto un racconto molto bello, compatto e convincente. Un racconto  che deve essere letto e diffuso perché il percorso narrativo si mantiene sempre alto e robusto e dove spesso squarciano inattese  immagini di luminosa poesia.

La trama affonda nell’immutabile dei secoli come riproposta e dolente riflessione  di un’attualità ancora incompiuta; partiamo dal Basso Medioevo e ci si accorge d’essere ancora inchiodati lì; tra protervie sociali e familiari, tra prepotenze pubbliche e private; soverchierie, ricatti, malversazioni sempre sul più debole, sopra la mitezza degli animi. L’amore, latente,  è sempre cercato ma non trova mai spazi dove concimarsi e nutrirsi. Ecco, dunque, che la storia s’incupisce negli oscuri presagi della tragedia (allora) o nell’acquiescente routine del quotidiano (adesso); si dipana dentro i gangli del tempo come una ragno che distende la sua tela in attesa della preda; sì, in tutta la storia c’è l’agguato del tempo, il sussurro timbrico del thriller che avvolge il lettore senza lasciargli alcun spiraglio di fuga, lo cattura e lo afferra col dominio della parola giusta, della frase scolpita in un momento di roccia.

La parola…, e qui si apre la tematica del lessico. Cristina Raddavero ha saputo compiere il sortilegio d’ incastrare nel tessuto narrativo la terminologia dialettale della Valle, l’antico linguaggio dell’Oltre Giogo genovese,  che ormai sta scomparendo. E lo dico con accorato personale rammarico, perché è anche il linguaggio dei mie avi materni e riscoprire certi termini desueti e abbandonati nella mia memoria ha costituito un tuffo rigeneratore d’aria scintillante. Nel contesto della frase,  Cristina Raddavero  usa questi termini con eleganza e sapienza; non appesantisce la filigrana narrativa, direi, piuttosto, che la contorna e la insaporisce con il vigore speziato di una necessaria alchimia letteraria. Forse senza volerlo, costruisce (o inventa?) un prezioso museo etnografico di oggetti della tradizione contadina, non già sepolti sotto cumuli di polvere stantia  come spesso succede,  ma appesi, necessari e vitali, alle pagine del racconto. E così ritroviamo le lesee per trasportare il fieno, le case per attingere l’acqua dal secchio, la msuia per falciare l’erxi dei prati vicino alle cioghende…  Indubbiamente il frazionamento dell’Alta Val Borbera, tra Spinola, Fieschi e Doria ha prodotto un altrettanto vasto frazionamento linguistico  e parole con la stessa radice etimologica hanno pronuncia e accentuazioni  diverse tra le stesse frazioni di uno stesso comune… Autra da chi (lontano, più in là di qui) sul Bossola  si sarebbe pronunciato Otra da chi; ma Autra da chi (o Otra da chi ) è sempre un cercare oltre, più a fondo, più lontano, forse tra vestigia storiche dissepolte dai secoli o, forse, tra gli abissi dell’animo dove basta un nulla, uno sguardo, un pensiero fuggevole per farci capire quanto l’uomo sia fragile e sgomento di fronte agli improvvisi frammenti che attraversano la vita.

Per energia narrativa e limpidezza di affabulazione, ritengo Autra da chi il miglior racconto di Cristina Raddavero, e credo che la stessa Autrice lo consideri tale. Non me ne aveva mai parlato durante la progettualità e l’elaborazione, mi diceva solo che stava lavorando con impegno su qualcosa che la coinvolgeva totalmente e le consumava energie emotive. “Un racconto su Piuzzo”, si limitava a dirmi laconicamente, “un racconto di Valle e Territorio”. Ed è vero; Autra da chi  è un racconto di Valle, di Territorio e Paese, ma esce dalla Valle, dal Territorio e dal Paese per sconfinare nelle geografie più profonde dell’anima. All’interno c’è vita, amore, dolore…, il palpito dell’esistenza soffia tra le pagine del libro come la carezza del vento  tra le foglie dei noccioleti sulle sommità del Bossola o dell’Ebro.
(Commento di Pier Luigi Coda)