Gabriele Borgna: "Manufatti del dissesto"- Minerva edizioni, Bologna

 

Due parole, estremi del filo che Gabriele Borgna tiene tra le dita in questo nuovo viaggio nella poesia addensata nella geografia/grafia della Sua Liguria.

Sua propria perché in vincoli al poièn del sole ponentino che spesso abbacina privando momentaneamente della vista e restituire lo sguardo, un vedere ottenuto per “derivazione”, lungo la linea di costa e quella altrettanto frastagliata del paesaggio interiore.

Manufatti: un manu facere che è movimento delle dita tra la sabbia, contatto con il mare e il suo “deposito” salino.

Sono versi di molatura e sbozzo ad un tempo: figli del mare, del suo incessante avanzare e ritirarsi, figliolanza del regolare disordine dell’immensità percepita tra acqua e terra.

Avere la saggezza nelle mani come scrive Gabriele chiama a fare i conti col dissesto:

Come in una nassa/a bocca aperta/fra le maglie delle cose/mi anniento.

E’ parola nota ai Liguri questo dissesto, nel disegno di una terra aggredita da catastrofi di varia natura, crepe telluriche, ferite del clima: ci raggiunse parallelo li fango serve per nominare le ferite umane nell’orbita di un mondo di significanze che spalancano la bocca del poeta nel grido rifrangente della “sostanza” mare.

I manufatti del dissesto sono orlati dall’interno e su essi un’altra lingua irrompe/ dell’utero del non ancora/germogli di rose e di mirto/ parole non parole.

Siamo nel “territorio” della valenza estetica della parola, dell’essenza della poesia e non possono non venire alle labbra, leggendo Gabriele, le parole risuonanti nei millenni di Gorgia filosofo: la poesia nelle sue varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro e chi la ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, per effetto delle parole, un suo proprio patimento…

L’istante comunicativo che si fonda sul non detto nel rivelato, nello sprofondo del mare di Liguria farsi condurre dalla penna, quel potere/poetare che senza chiedere permesso arriva da lontano, “sdraiato” come l’orizzonte, a piombo come la verticalità di un sentire senza tempo e senza spazio.

E magari, intuire che Gabriele visita questi versi con la consapevolezza di una convertibilità delle parole che “fanno” il titolo della raccolta: dissesto dei manufatti, mani contro i muri sbrecciati, piedi verso il mare a muovere passi  qualche volta stanchi,  ma sempre fecondi.

(Commento di Cristina Raddavero)