Tommasino Gazo: "Piano zero" - Cicorivolta editore

 

Caro Ino,
scusami  se in questa circostanza non riesco a scrivere per il tuo racconto una recensione, diciamo così, nella classica forma con cui per solito si redigono le note critiche di un lavoro letterario. Troppa vita, troppe conoscenze comuni  mi si accavallano nella memoria e negli occhi per riuscire a rimuoverle d'un colpo. Così ho pensato di scriverti una lettera, per me diventa più facile, più vero, più immediato e, di certo, più veritiero esprimerti le mie riflessioni. Infatti,  leggendoti non ho  potuto fare a meno di ripensare agli interminabili scalini del Liceo Scientifico che salivamo tutti i benedetti giorni di scuola. Allora il Liceo si trovava in Piazza del Duomo e ancora non si chiamava "Viesseux" ma semplicemente "Liceo Scientifico Statale" e tutti ne andavamo orgogliosi. Tra parentesi, quell'appellativo Viesseux io l'ho sempre trovato pomposo e fuorviante, cosa centra Viesseux con Imperia se non la strana coincidenza d'esserci nato per sbaglio? Probabilmente anche lo stesso Viesseux se ne era  dimenticato.
                 Poi gli anni dell'università a Milano: tu Statistica io Economia; ricordi il professor Predetti? Le sue lezioni senza commento, pardon, oggi si direbbe senza "question time"? Con noi c'era un'altra ragazza di Imperia dai capelli rossi fiammeggianti, si chiamava Claudia, non ne so più nulla; non l'ho più rivista, forse anche lei è sparita da Imperia come Marco, il protagonista del tuo racconto, non so, l'ho ripensata leggendo le righe del tuo libro a pag. 104:  "Era assurdo vivere lì, in quel paese che non riconosceva come suo. Un paese che vedeva triste, con giovani incapaci di sognare il proprio futuro e,soprattutto, un futuro migliore".
                "Piano zero"; l'ho letto,come si suo dire, tutto d'un fiato; un paio d'ore senza interruzioni. Mi sono infilato tra le pagine e, senza quasi accorgermene, mi ci sono trovato impigliato dentro. Ho trovato ingegnosa la scenografica intuizione di ripercorrere una intera vita nel tempo che un ascensore impiega per scendere dieci piani di tragitto. Un rapidissimo flashback di dieci secondi? (Forse venti? Trenta sono troppi? Ma se ci sono fermate intermedie?).  Ad ogni piano un capitolo di vita e, comunque,  in una manciata di secondi un bilancio dell'esistenza e un sussulto dell'animo. Così io ho conosciuto Marco, Sandro, Francesca, Nadia, Maria, Evelina... Entravano e uscivano dall'ascensore come dalla vita di ognuno di noi, scandendo attimi e percorsi, coincidenze e fatalità.
                Quando ho terminato la lettura, mi sono accorto che i personaggi del racconto restavano ancora appiccicati nei miei occhi e nelle mie riflessioni. Non si staccavano da me, mi si ripresentavano nelle loro sfaccettature come tessere di un puzzle ancora da risolvere.  Certo, nel breve percorso di dieci piani in ascensore, Marco traccia il bilancio fallimentare della sua esistenza: amori e unioni sbagliati, il più caro amico che se la fa con la moglie, l'accusa mortificante d' essere l'autore di un duplice assassinio, scappatelle amorose che non risolvono nulla, l'esperienza del carcere,  nuovi incontri e sempre la fuga verso altri orizzonti: "Non aveva più nulla da raggiungere, tanto da dimenticare e molto da ricostruire, soprattutto se stesso" (pag 85).
                Sullo sfondo, il mare, la passione per la vela: "Il mare era una presenza forte e ammaliante, la passione che cancellava tutte le altre, quella di vivere in barca tutti giorni dell'estate..." (pag 12). E come per  Marco, per tutti noi che abbiamo vissuto e viviamo di vento e di mare, il mare  è " il rifugio dalle brutture della vita, il modo per riconciliarsi con il mondo, per sciogliere nell'abbraccio con l'acqua salata l'ansia e la tristezza" (pag. 12).
                Marco arriva al piano terra con una valigiata di amarezze e una busta gialla che contiene un referto medico che non promette molte prospettive. Non so se Maria,la guardia che aveva conosciuto in carcere, con la sua grande umanità, riuscirà ad aiutarlo a inventarsi nuovi spiragli di vita.  Non so, Marco è rotto dentro, il suo animo è fatto a brandelli,  non riconosce più se stesso e l'ambiente che lo circonda; non riconosce neppure la sua stessa città. La cementificazione l'ha  umiliata, il vecchio porto è stato oltraggiato: "Doveva veder distrutti i suoi ricordi, i suoi moli, accettare lo stravolgimento del borgo dove era nato, del riparo di quei moli dove aveva dato i primi colpi di remo. E tutto questo in nome di un presunto sviluppo della città? No, assolutamente no. Era una presa in giro, era soltanto l'ultima brutta avventura speculativa che aveva deturpato il suo paese senza offrire nulla in cambio" (pag 108).
                Già, i moli della nostra giovinezza, le traversate a nuoto tra quello lungo e quello corto in sfida alle vedette della Capitaneria; e la sera quanti sogni tra gli anfratti degli scogli, quanti amori rischiarati appena dalle luci discrete e complici dei vecchi lampioni; oggi li hanno sostituiti con delle sfacciate luminescenze azzurre.
                Il disagio e lo sconcerto di Marco sono il disagio e lo sconcerto di tutti coloro che assistono impotenti ad una trasformazione sociale non sempre sintonizzata con le attese etiche ed ambientali di una civile convivenza. Da qui l'impulso (o il desiderio?) di mollare tutto, partire, cambiare vita, lasciare per sempre il "natio borgo selvaggio".
« Questo paese ci annoia, o Morte! Alziamo le vele!
Se il cielo e il mare sono neri come l'inchiostro,
I nostri cuori che tu conosci sono pieni di luce! »
                                                                                              Baudelaire

                Fuggire come Jacques Brel, come Enrich Scheurmann, come Paul Gauguin: “Sono fuggito da tutto ciò che è artificio e convenzione. Qui entro nella Verità, divento tutt’uno con la natura”(Noa Noa). Riprendere finalmente possesso dei giorni e della propria libertà, insomma, rigenerarsi.
Rigenerarsi...già... forse... Di certo, Marco assapora la sua rivalsa: a due giornalisti rilascia una intervista  con due versioni completamente diverse sulla sua vicenda giudiziaria.  "E non solo si era divertito ad affermare cose diverse ed anche campate in aria con i due giornalisti e ancor di più aveva riso di fronte alle loro proteste telefoniche... aveva detto tutto e il contrario di tutto, aveva raccontato frottole contrastanti, aveva confuso le loro idee in modo vergognoso " (pag. 98).
                Ma qui non si tratta solo di uno scherzo o di una piccola vendetta personale per le mistificazioni subite dalla stampa durante lo sviluppo dell'inchiesta, questa intervista falsificata assume l'aspetto di un gesto emblematico e dissacratorio, un deliberato attentato al cuore di uno dei pilastri fondanti la società contemporanea: la comunicazione, il potere distorcente dei mass media, la survalenza dell'immagine e delle alterazioni che manipolano e pilotano l'opinione pubblica. Quello di Marco è il grido esistenziale di Munch ma anche un segno di rivoluzione e di fiducia nello stesso tempo: c'è ancora spazio per liberare la fantasia, per scardinare le regole e mettere a nudo la vacua ipocrisia che avvolge l'uomo e che spesso soffoca il respiro e qualsiasi speranza di giustizia.
Con i miei complimenti e il mio affetto
Pier Luigi Coda.