Marco Maggi: "Né padri né madri" - Ladolfi

 

Figli di un tempo glabro… è la prima sosta, un indugio necessario, non appena varcata la soglia del poemetto di  Marco Maggi fresco di stampa per i tipi di Ladolfi Editore.

E’ opportuno che questo glabro si rivesta di lanugine, quel tanto che basta nel re-incanto del nuovo mondo, nella messa in scena della vita che guizza sulle sedie fuori dalla soglia di casa  teatro domestico sì caro all’autore, chiave di lettura di quello universale.

La quotidianità di Marco Maggi è lo “svincolo” che consente, nella sua lucida complessità, l’ingresso e l’uscita, l’unico tratto che gode di illuminazione. Puntata dove? Sulle generazioni sperse, senza padri, né madri, eppure così fisiologicamente assetate di genitorialità, istanza che tracima oltre la “famiglia” e si allarga alla società.

Lo stile genitoriale è indicativo/indicatore del clima generale della “casa”.

Si strugge il poeta: sopravvive il silenzio /che cala tra le nostre case senza più cuore. Sia omessa la “u”….senza più cure.

Il ritmo “sfumato” si sovrappone alla “frenesia” della penna di Marco che ha da dire mentre scala le marce (ancora mi soccorre il linguaggio automobilistico) e non può che rallentare innanzi all’Africa con il suo calore, con l’energia vitale, con la sua collocazione nell’isteros dove si occulta la madre terra.

Né padri né madri, una condizione tragicamente propria degli elementi (terra, aria, acqua) come si dovesse ripartire dal principio, risalire oltre il lògos, al mito tornare, leggere il mondo con il linguaggio delle origini.

La scelta stessa del poemetto è il punto di partenza di una sfida che Maggi raccoglie nella sua tipicità di essere poema di breve estensione che circoscrive la rappresentazione di una realtà in sé conclusa ove il peso specifico si situa però nel respiro più ampio di un tempo che va oltre la consueta scansione quasi dentro un passato futuribile e un futuro nottetempo passato, trascorso nella brevità della tecnica che si autologora pur auotoalimentandosi .  Né padri né madri si innesta sulla retrocessione alla parola e alla ragione poetica: solo in questa veste Maggi legge il mondo con l’approccio “filosofico” del suo dire.

Tutto è ancora fermo qui  è una distanza dalla disperazione e un canto alla speranza nonostante la denuncia sociale: E’ una nenia che si rapprende/alle pareti dei capannoni chiusi…

ma ci sono villaggi di pescatori  ove distillare i decenni e precipitare la sostanza dell’essere orfani. E in controluce ravvisare nella banalità del nostro esistere, il quotidiano svigorito sugli schermi degli smartphones  salvo l’ostinazione a suonare  la cetra. Allora e ancora il ritorno a Itaca per ripartire, revisionando i contenuti, smettere i panni degli “idioti” e tornare cittadini nel senso forte della parola.

Maggi non è per tà idia, le cose proprie, ma per un bene acceso lungo la strada della vite che osservandosi di spalle fanno a pugni con la Scienza, l’amore col Silenzio così gridato: Ma in fondo, io/do cosa sono stato veramente capace?

Allora mi si conceda il gioco di parole, di cosa si è veramente rapaci?  Maggi ci indica assai lucidamente il percorso: non perdersi nella parafrasi della vita, perché, in fondo, ognuno di noi sa che tradurre è tradire e al poeta non resta che andare in cerca di un distico di sangue.

(Commento di Cristina Raddavero)

LA VERITA’ DENTRO UNA PAROLA

Ho letto e riletto nei giorni scorsi il nuovo libro di Marco Giovanni Maggi, l’imprenditore castelnovese, che ha ormai all’attivo 3 libri di poesia, con diversi riconoscimenti in importanti Premi nazionali (e l’essere “imprenditore” e “poeta” arricchisce entrambi i versanti: dal momento che spesso gli operatori economici sono privi della necessaria sensibilità, cultura e fantasia; mentre i secondi, talvolta, mancano di una salutare pragmaticità e socialità). Si tratta di un originale “poemetto” diviso in tre sezioni, che racconta sul filo dell’emozione e dei sentimenti dell’Autore – in molti versi trattenuti con molta riservatezza, in altri liberati con forte se non tagliente espressività -  i tempi e le circostanze del nostro inquieto vivere. Dirò subito che non deve ingannare il sottile spessore del libro: il testo puro (al di là della prefazione di Ivan Fedeli, della introduzione e nota biografica) è contenuto in poco più di venti pagine; tuttavia sono così dense e straordinariamente ricche che devono essere affrontate come un romanzo di almeno centocinquanta pagine (come? Semplicemente rileggendole almeno dalle tre alle cinque volte, per riuscire a coglierne appieno il significato ed il valore). Ogni parola è studiata per corrispondere alle intime ragioni interiori del poeta, per cui ha un enorme peso specifico. A questo riguardo, allora, come non citare la felice intuizione dello scrittore castelnovese Pier Angelo Soldini, il quale scrisse: “La verità arriva più facilmente da una parola che non dà un discorso” (in “La forma della foglia”). E richiede di essere pazientemente ascoltata.

Bella, poi,  la dedica a due coniugi (Anna e Mario) legati all’infanzia dell’Autore, il quale ricorda il loro affetto, la loro calda umanità, la loro semplicità di vita con alcuni versi di felice ispirazione: “le sedie fuori dalla soglia di casa/ quasi fossero il proscenio/ del teatro aperto sulla via”, con la chiara allusione al fatto che la loro straordinaria ospitalità rendeva la loro casa sempre aperta e accogliente oltre misura.

Gli spunti che la lettura di questi versi offrono sono molti, pertanto mi limito a qualche rapida sottolineatura. Prima di tutto, mi sento di poter affermare che se è vero che il “tempo” del poemetto è il “presente” (che ricorda il passato, vive il presente e progetta il futuro), ognuna delle tre parti potrebbe essere dedicata (come Sant’Agostino insegna) ad una “modalità temporale” specifica per viverlo: la prima al “passato” (che rivive al presente mediante il ricordo); la seconda al “presente” (come attimo della maggior consapevolezza) e la terza al “futuro” (anticipato al presente mediante l’attesa). I migliori ricordi dell’infanzia diventano attimi di vera gioia che “adesso sembrano lasciati lì, come/ lenzuola stese al sole ad asciugare,/ quelle in cui ci si tuffava da bambini/ immaginando le nuvole/ su cui far crescere i nostri sogni” (pag. 20). Si arriva, poi, ai problemi attuali, alla frenesia tecnologica, “dov’è riposto un pensiero a cristalli liquidi,/ una luce sintetica che sfiora/ la banalità del nostro esistere” (pag. 31). Ai temi del lavoro e dell’economia (davanti… alle nuove chiese della finanza,  i cui “rosoni, quasi fauci spalancate/ sempre pronte a divorare anime”, pag. 35).  Per terminare – pur nell’umile consapevolezza della propria fragilità (“per questa aria da recluta della vita/ che certi giorni ancora indosso,/ con questa maledetta/benedetta educazione”, pag. 37) – con un fiducioso sospiro nella “fantasia della vita”, la quale aiuta a capire  che “menzogna e paura sono demoni/ a cui si deve sbattere la porta in faccia” per spegnere questo troppo che ci affligge e dipingere “il mondo con nuove tinte/ per allontanare la morte/ per esorcizzare la notte” (pag. 41).  

Come ci insegna Papa Francesco “tutto il mondo è connesso”, perciò occorre superare il vero e proprio “scisma” che si registra “fra il singolo e la comunità umana” (“Fratelli tutti”, n. 31), per costruire una vera civiltà dell’amore. Anche a partire dalla poesia, e dalla sua tenue ma efficacissima voce, che ci risveglia e ci fa vedere la realtà con altri occhi.

Perché “la mancanza di un senso pesa, rende orfani” (così Ivan Fedeli).

(Commento di Roberto Carlo Delconte)